Hunger Games, la ragazza di fuoco. Solo distopia o critica della società contemporanea? — 5 dicembre 2013

Hunger Games, la ragazza di fuoco. Solo distopia o critica della società contemporanea?

Hunger-Games-Catching-FireContrariamente a quanto affermato da David Denby, critico del New Yorker, Hunger Games si basa – secondo me – su una premessa sensata. Giudicate voi. Un governo totalitario tiene a bada la popolazione grazie ad uno spietato show televisivo che manda a morte giovani cittadini. Vi sembra un’idea troppo futuristica? Ma il critico americano non si capacita. Per lui rimane un’idea scriteriata.

Sicuramente è più sensato un sistema “democratico” che condanna le persone alla miseria, per difendere i principi del libero scambio e i diritti dei fuorilegge a discapito dei giusti. Più sensato un mondo globalizzato che – in virtù del mercato – ha prodotto omologazione a basso costo, povertà diffusa e diseguaglianza. Ma queste, diranno i sapientoni, sono altre questioni. Per me no.

Hunger Games – plagio del romanzo giapponese Battle Royale – non può essere facilmente annoverato nel genere distopico. Il futuro descritto non appare così lontano dal nostro presente. Il Grande Fratello globale serve ai politici come strumento per distrarre le masse dai veri problemi del quotidiano. Scusate un attimo: ma calcio, televisione e Facebook non servono proprio a questo? Mah… io non credo, figurati se è vero…

Ad ogni modo, i concorrenti o tributi sono presi tra i 12 distretti di Panem (regime di un’America post-apocalittica), messi in un’arena a combattere finché ne rimarrà soltanto uno: il vincitore. Nel secondo capitolo della trilogia, La ragazza di fuoco, Katniss (premio Oscar Jennifer Lawrence) e Peeta sono costretti a partecipare all’edizione straordinaria dei giochi, con gli altri 22 vincitori ancora in vita dei precedenti Hunger Games. Nel frattempo il popolo comincia a ribellarsi, riconoscendo la protagonista come un  simbolo di libertà. Questa è la vicenda. Per il resto, la regia di Francis Lawrence è magistrale fino alla sequenza di Capitol City, in cui la trama appare meno dinamica e brillante. In ogni caso: colori accesi, schiamazzi, parrucche e volti trasfigurati dal fondotinta sono contrapposti efficacemente al silenzioso grigiore della povertà, alla freddezza della polizia, alle drammatiche condizioni di vita nel distretto 12.

Dunque la storia tiene, eccome. Le critiche alla società dell’edonismo sfrenato e del denaro simbolo di sopraffazione risultano esplicite ed azzeccate. Il regime totalitario e il gioco cruento sembrano, poi, elementi già presenti nel nostro quotidiano. Per tanti motivi è una gran bella produzione. Da vedere.

Parole per riassumere la trilogia? Panem et circenses o Stadi pieni vs fabbriche vuote: la rivolta sociale.

Paolo Fassino

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